I mille problemi dello shopping

Il mio rapporto con lo shopping è pessimo, quasi peggiore del mio rapporto con le cerniere lampo. Vi sembrerà ridicolo che un aggeggio così semplice mi possa mettere in crisi, ma purtroppo è così: ogni volta che io utilizzo uno di questi marchingegni, riesco invariabilmente ad incepparlo. Non parliamo poi delle cerniere che hanno due cursori: una vera tragedia. Mi sono chiesto più volte del perché della necessità di avere doppia complicazione e mi è stato risposto che così si ha più flessibilità in quanto si può regolare meglio l'apertura, dal basso come dall'alto, della cerniera stessa. L'unica flessibilità che io ho acquisito, sta nella serie più colorita di improperi che rivolgo immancabilmente all'inventore di questa specie di ghigliottina per le pudenda maschili.

Scusate la disgressione e torniamo all'argomento principale di questa dissertazione. Dicevo che io ho un pessimo rapporto con lo shopping. Non so quando sia nata la mia avversione per questa attività, che pure affascina milioni di persone: credo che sia insita nel mio stesso DNA. Infatti, odio tutte le forme di acquisto: nei negozi, nelle boutique, nei centri commerciali, nei mercati rionali. Solo avvertire la loro vicinanza mi fa entrare in fibrillazione, mentre ci sono miei conoscenti che passerebbero tutte le vacanze estive in un centro commerciale. Io invece, e probabilmente soffro di un complesso d'inferiorità, ogni volta che entro in un esercizio abilitato alla vendita al pubblico mi sento un miserabile.

Le commesse, con il loro linguaggio professionale, mi terrorizzano. In particolar modo, vengo assalito da crisi di panico ogni volta che entro in un negozio di abbigliamento. Appena varco la porta di entrata, mi viene incontro la gentile signorina che mi guarda come se fosse arrivato l'omino Michelin. È vero, non sono una silfide, ma non credo di meritare così tanto disprezzo. Superato il primo momento d'imbarazzo e dopo aver spiegato i miei desiderata, mi viene chiesto, con una punta d'ironia che pare solo a me di percepire, «Che taglia porta?». A quel punto, ho effettivamente un attimo di vergogna a dichiarare così pubblicamente i numeri fatidici e quindi ogni tanto riduco il loro effettivo ammontare. A troncare ogni mia pia illusione ci pensa lo sguardo palesemente scettico della commessa e la voce angelica di mia moglie, che mi fa notare che la mia misura reale sia di almeno due taglie più grandi. Come se non bastasse, inoltre, mi ricorda che nonostante lei faccia sforzi immani per tenermi a dieta, io non le do retta e mi comporto da perfetto ingrato. Forse, in qualche modo ha pure ragione; ma almeno lo dicesse sottovoce! Invece no, sbandiera i miei difetti con tono squillante, diffondendo la notizia ai quattro venti e così devo pure subire lo sguardo di disprezzo degli altri clienti. Superata la fase della dichiarazione della taglia, si entra nel lungo processo di scelta del colore del capo da acquistare. Ovviamente anche su questo tra me e mia moglie i punti di vista sono ben diversi, ed ogni volta dobbiamo fare una lunga dissertazione per stabilire se mi è concesso di indossare un capo di abbigliamento con la mia tonalità preferita. Ogni volta che scelgo un colore, mia moglie ribatte che stirandolo diventa lucido. Confesso la mia ignoranza in materia, ma si usa la cera per stirare un indumento?

Per prudenza è meglio non approfondire troppo la questione; e quelle volte, poche in verità, in cui riesco a spuntarla sul colore, ebbene la commessa, invariabilmente, mi fa notare che proprio quella tinta non si usa più. Ma dico io, non avrebbe potuto dirmelo prima, all'inizio della battaglia verbale con mia moglie? Almeno avrei evitato funambolismi oratori per convincere la compagna della mia vita. Inoltre, vorrei sapere chi decide che un colore non si usa più: è una precisa scelta della stessa commessa, perché non ha in negozio quello che io sto cercando, oppure si tratta dell’illuminazione venuta a qualche guru della moda? Se così fosse, dobbiamo aspettarci che un giorno gli alberi non siano più verdi perché qualcuno, che si crede il depositario della scienza cromatica, decide che questo colore è diventato obsoleto? Veniamo ora al momento decisivo, quello della prova del capo. Per me questa fase è la più indigesta. Avete mai vissuto l'esperienza di misurare un vestito in quelle specie di macchina della tortura appellata graziosamente “vergine di Norimberga” che in molti chiamano camerini di prova? Per prima cosa le porte non sono mai intere, ma sono mancanti di un buon mezzo metro nella parte inferiore e di un altro mezzo metro nella parte superiore. In pratica nascondo solamente gli attributi. Non ne ho mai capito il motivo. Qualcuno mi ha spiegato che serve per evitare furti, ma la cosa mi sembra assurda. Alcuni negozi hanno invece sostituito la porta monca con una tenda che, guarda caso, non si riesce mai a chiudere. Io non sono pudico al parossismo, ma mi da fastidio sentirmi osservato dall'occhio del grande fratello. In secondo luogo, all'interno delle cabine manca quasi sempre un banale gancio o qualcosa su cui appendere gli abiti che dobbiamo necessariamente toglierci per effettuare la prova. Cosa pensano i proprietari dei negozi? Che l'interno del camerino sia in assenza di gravità?

Superato il trauma del bugigattolo, inizia la fase vera della prova. La commessa che, quando ho dichiarato la mia taglia, mi ha deriso, accortasi che in negozio non ha niente della mia misura, mi sottopone un capo di taglia più piccola, adatto forse ai bronzi di Riace, assicurandomi che ciò che mi propone ha grande vestibilità e che quindi addosso a me sarà perfetto. Dopo essere riuscito con mille sforzi ad indossare quella specie di cintura di castità, esco con passettini da gheisha per sottopormi al giudizio divino. Mia moglie mi guarda con occhio critico e tace. La commessa invece mi assicura che mi sta perfettamente e che faccio la figura di un indossatore. Forse un indossatore di camicie di forza. Io, che nel frattempo sto diventando sempre più cianotico, guardo la mia consorte sperando che mi tragga d'impaccio, visto che ho difficoltà a respirare, figurarsi quindi a parlare. Ma la sadica consorte, che in condizioni normali è prodiga ad ammannirmi consigli e pillole di saggezza, in questo frangente medita. Quando finalmente si scuote dal torpore, dice alla commessa che forse il capo è leggermente stretto, al che la nostra assistente agli acquisti risponde con il fatidico «trova?» e mi sottopone al giudizio degli altri clienti. Altri quindici minuti di discussione. Nel frattempo io, sempre più in debito di ossigeno, in un ultimo sprazzo di lucidità e con la forza della disperazione riesco a guadagnare la porta dello sgabuzzino e mi libero dell'armatura da crociato. Com'è e come non è, alla fine riesco a trovare qualcosa che vada bene per me. Non è perfetto, ma a quel punto, non ho il coraggio di dire alla commessa che non lo prendo. Non vorrei dover affrontare la fustigazione pubblica.

Il mercato rionale, poi, ha su di me gli stessi effetti del negozio d’abbigliamento con qualche complicazione in più. Frequento poco i mercati perché, per colpa della folla che mi spinge a destra e a manca, dei carrelli della spesa che mi passano sui piedi e dei passeggini dei bambini che mi urtano, esco sempre dalla zona mercatale con diverse escoriazioni. Ogni tanto però, per accontentare la mia metà, mi tocca sforzarmi ed entrare nella giungla delle bancarelle. Io non ho l'arte dell'acquisitore e quindi mi trovo impacciato a fare acquisti sui banchi. Noto che la gente intorno a me, con la massima disinvoltura, tocca la merce, la valuta, contratta il prezzo e fa tutte quelle attività richieste ad un buon compratore. Io non ho questa capacità e pertanto non riesco mai a trovare ciò che mi soddisfa. A volte miracolosamente ci riesco e quasi sempre si tratta di capi d'abbigliamento, dimenticando però, che poi lo devo provare. Se nel negozio ho avuto così tanti problemi figuratevi in un mercato. Normalmente la prova si svolge all'interno dei furgoni in cui viene trasportata la merce. È vero che lo spazio è maggiore di una cabina di prova e quindi non servono contorsioni strane per indossare un capo, ma non dimentichiamo che il mezzo possiede un'altezza ridotta ed io, con il mio metro e ottantatrè di statura, devo piegarmi in quattro se voglio avere qualche possibilità di successo. Inoltre, per evitare sguardi indiscreti, l'astuto commerciante chiude ermeticamente le porte del furgone facendomi piombare nell'oscurità assoluta. Sfido chiunque provare un indumento piegato in quattro e completamente al buio. Bisogna aver imparato la tecnica usata da Houdini per uscire dalle casseforti. Non parliamo poi delle conseguenze se la prova viene effettuata nelle due stagioni più estreme: l'estate o l'inverno. Vi immaginate come può essere l'interno di un furgone rimasto per ore sotto il sole cocente oppure esposto a temperature glaciali? Se ne esce carbonizzati o al contrario duro come uno stoccafisso.

Roberto Serassio