Continua il viaggio alla scoperta delle abbazie: anche la Toscana, come la regione piemontese, è ricca di complessi monastici che nel tempo si sono evoluti e arricchiti di opere d’arte. Iniziamo un altro viaggio affascinante all’interno di una spiritualità per certi versi misteriosa, ma che comunque stuzzica la fantasia dei visitatori.
Al contrario di quelle del Piemonte, le abbazie toscane sono forse più ricche, sia spiritualmente che materialmente, in quanto il loro sviluppo è avvenuto in un contesto meno “rustico” della regione subalpina del Medioevo. Come abbiamo visto, le valli piemontesi erano molto povere ed abitate da genti ancora legate alla religione celtica e alle sue superstizioni, per cui il cammino è stato molto difficile. Con questo non si vuole dire che l’opera dei monaci toscani non sia stata improba, ma almeno si è sviluppata in un ambiente di maggiore cultura. Il fatto stesso che la Toscana sia stata la patria di grandi artisti e del Rinascimento italiano è una conferma della diversità di situazioni in cui i monaci hanno operato.
L’abbazia di San Michele Arcangelo a Passignano (FI) fu forse fondata nell’anno 884 per opera dei Longobardi molto legati al culto dell’angelo guerriero. Fu tra le prime, nel secolo XI secolo, a schierarsi a fianco di Giovanni Gualberto, dell’abbazia di Vallombrosa, contro la simonia ed ancora oggi il complesso è retto da una comunità vallombrosana.
Tra i tanti abati che si sono succeduti a Passignano, va citato Pietro che nel 1068 camminò in mezzo al fuoco davanti alla Badia a Settimo, uscendone illeso. In seguito a questo episodio, il vescovo di Firenze, Pietro Mezzabarba, fu costretto ad abbandonare la città perché accusato dai vallombrosani di simonia.
Giovanni Gualamberto, dopo una vita trascorsa a combattere per la libertà della chiesa, morì nel complesso di Passignano nel 1073. La custodia dei suoi resti mortali conferì all’abbazia un grande prestigio, che si tradusse in donazioni che le permisero di amministrare vasti territori nel Chianti.
Nel 1810 il monastero fu soppresso per effetto delle leggi napoleoniche e tutti i beni immobili, che comprendevano 41 poderi e 80 case coloniche, furono dati in affitto, mentre l’intero patrimonio dell’archivio e della biblioteca venne disperso. Tuttavia, i vallombrosani riuscirono a riacquistare Passignano nel 1818, anche se l’abate fu nominato solo nel 1858. Il possesso però durò poco: nel 1866, con le leggi Siccardi con cui vennero soppressi gli ordini religiosi, lo stato italiano divenne proprietario di tutto. La costanza dei vallombrosani venne però premiata e nel 1986 riottennero la proprietà di Passignano, che detengono tutt’ora.
Oggi il complesso si presenta al visitatore come un castello militare dotato di cinque torri angolari, mentre l’interno rivela chiaramente il modello della tipica abbazia benedettina.
Tra gli ambienti più pregevoli del monastero, ci sono il refettorio, realizzato nel XV secolo, dove spiccano alcuni affreschi di Bernardo Rosselli ed un eccellente Cenacolo di Domenico Ghirlandaio; il chiostro, costruito a partire dal 1470 su disegno di Jacopo Rosselli, fratello del Bernardo che dipinse le lunette del refettorio; la cucina, il cui camino, così come ci appare ora, è stato sistemato nel XVIII secolo e la chiesa abbaziale che prese l’aspetto attuale durante i lavori del Cinquecento.
L’interno, a croce latina, tipica degli edifici sacri vallombrosani, custodisce numerose opere d’arte, come le due tavole del XVI secolo dipinte da Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, il coro monastico realizzato nel 1549 da Michele Confetto, la cappella di San Michele Arcangelo, disegnata nel 1598 dal Passignano che realizzò anche gli affreschi della volta, la cappella di San Giovanni Gualberto in cui è custodito il suo sepolcro, quella di San Sebastiano e di Sant’Atto, la cripta, riconducibile alla chiesa primitiva del secolo XI, la sacrestia ed infine il reliquiario di San Giovanni Gualberto.
Al di fuori del perimetro dell’abbazia si possono ammirare due cappelle: quella dei Pesci, sulla strada di Panzano e quella del Morandello, sulla carrabile che giunge da Sambuca Val di Pesa.
Secondo tradizione, l’abbazia di San Miniato al Monte a Firenze venne fondata nella posizione stessa in cui il santo, primo martire della città e di cui il complesso porta il nome, decapitato durante le persecuzioni cristiane, arrivò attraversando l’Arno con la sua testa in mano.
Sul luogo in cui giunse, che poi era anche dove aveva stabilito il suo eremitaggio, fu dapprima eretto un santuario e nel secolo VIII una cappella.
La costruzione della chiesa attuale iniziò nel 1018 per opera di monaci benedettini che in seguito aderirono alla “Congregazione Cluniacense” e terminò alla fine del XII secolo.
Nel 1373, i benedettini cluniacensi furono sostituiti dai benedettini olivetani che vi risiedono tutt’ora, famosi per la produzione di liquori, miele e tisane.
La facciata della chiesa, splendido esempio dell’architettura romanica fiorentina ed iniziata nell’XI secolo, è caratterizzata da due fasce principali che ci rimandano all’arte romana dei primi templi pagani: infatti la chiesa riconduce al tempio di Giove a Terracina; molto interessante è il mosaico del riquadro superiore che rappresenta il Cristo tra la Vergine e San Miniato.
L’interno è uno scrigno di opere d’arte, a cominciare dal pavimento intarsiato, la cui costruzione ebbe inizio nel 1207, che presenta un pannello dedicato allo zodiaco.
La fascia centrale, anch’essa intarsiata, conduce all’altare maggiore che è in realtà la Cappella del Crocifisso del Michelozzo che in origine ospitava il Crocifisso miracoloso, oggi in Santa Trinità. La volta a botte è decorata con le terrecotte di Luca della Robbia, così come il crocifisso che domina l’altare maggiore; la pala d’altare è invece attribuita ad Agnolo Gaddi.
Il coro ed il presbiterio danno ospitalità ad un pulpito romanico del 1207, mentre il catino absidale è decorato da un mosaico in cui sono rappresentati il Redentore tra la Madonna e San Miniato, di fatto una copia più in grande di quello che si trova sulla facciata e probabilmente dello stesso autore, di cui non si conosce il nome.
La cappella del “Cardinale del Portogallo”, posta sulla navata sinistra, fu costruita tra il 1459 ed il 1467 in onore di Giacomo di Lusitania, che morì a Firenze nel 1459 mentre era di passaggio nel suo ruolo di ambasciatore. La cappella fu progettata da Antonio Rossellino che, assieme al fratello Bernardo, fu anche l’autore delle decorazioni scultoree della tomba. La pala d’altare ed alcuni affreschi furono eseguiti da Piero ed Antonio del Pollaiolo, la tavola dell'Annunciazione e la serie di Profeti, Evangelisti e Padri della Chiesa sono di Alesso Baldovinetti, mentre il soffitto in terracotta invetriata policroma è ancora di Luca della Robbia.
La cripta è la parte più antica della chiesa ed è posta subito sotto all’altare maggiore che si suppone contenga le ossa di San Miniato, anche se c’è prova evidente che queste siano state portate a Metz prima della costruzione del complesso; la volta è stata affrescata da Taddeo Gaddi nel 1341.
Anche la sagrestia, cui si accede dalla navata sinistra, si presenta interessante, grazie al ciclo di affreschi sulla vita di San Benedetto, realizzati da Spinello Aretino.
L’abbazia, a fianco della chiesa, è aperta sul chiostro, rifatto nel 1426 per opera dell’Arte di Calimala, una delle più potenti corporazioni del tempo e decorato da affreschi di Paolo Uccello; ai lavori partecipò anche Bernardo Buontalenti, sostituendo nel 1547 una scena di Paolo Uccello nel suo raro Cristo sulla via di Emmaus.
L’abbazia di Vallombrosa, nel comune di Reggello (FI), sorse per opera dei vallombrosani, comunità monastica creata da San Giovanni Gualamberto, che già abbiamo incontrato parlando del monastero di Passignano.
Anche se nel 1038 già si menzionava un oratorio in legno, l’abbazia sorse solo a partire dal 1058, quando il cardinale Umberto di Silva Candida consacrò una chiesa in pietra con piccolo monastero annesso.
Con il tempo, la comunità vallombrosana crebbe, per cui si rese necessario l’ampliamento di tutto il complesso i cui lavori iniziarono nel 1224 e si conclusero nel 1227.
Nel XV secolo, l’abate Francesco Altaviti sottopose l’abbazia ad imponenti lavori, per realizzare il chiostro grande, la sacrestia, la torre ed il refettorio con annessa cucina. Il suo successore, l’abate Biagio Milanesi, la dotò di una grande biblioteca e di opere d’arte come la pala del Perugino, oggi non più custodita a Vallombrosa, la tavola di Raffaellino del Garbo e la terracotta di Luca della Robbia. Nel secolo successivo, fu ancora realizzato il Chiostro del Mascherone. Tuttavia, l’aspetto che possiede oggi arrivò solo nel Seicento e con ulteriori rifiniture nel Settecento, mentre l’ingente patrimonio artistico accumulato negli anni fu disperso dalla legge napoleonica sulla soppressione dei conventi e la successiva demanializzazione della proprietà svolta in epoca sabauda; solo nel 1949 i vallombrosani ripresero possesso del monastero.
L’interno della chiesa ha mantenuto la struttura del 1230, anche se non presenta più il classico aspetto medievale: la copertura a capriate fu infatti sostituita nel XVI secolo e la navata centrale ricevette la veste attuale nel Settecento. Molti i pittori concorsero a realizzare gli ornamenti: tra i più noti, Niccolò Lapi, Ignazio Hugford, Giuseppe Fabrini, Antonio Donati, Lorenzo Lippi, Alessandro Gherardini e Francesco Botti.
La parte del monastero riservata alla clausura si sviluppa attorno al Chiostro della Meridiana, così chiamato per la presenza appunto dello strumento che indica il tempo. Dal chiostro si accede all’Aula Capitolare, anch’essa del Quattrocento e all’antirefettorio, affacciato su refettorio e cucina. Il primo ospita una ricca decorazione costituita da diverse tele settecentesche realizzate da Ignazio Hugford, mentre la cucina è divisa in due ambienti da un camino con cappa.
Il Chiostro del Mascherone fu invece costruito nel tardo Cinquecento e la loggia sullo sfondo è opera del 1589 di Alfonso Parisi, lo stesso che realizzò la biblioteca nel 1584, rimodernata in stile neoclassico nel primo Ottocento.
Prima di lasciare l’abbazia, merita una visita il museo d’arte sacra, aperto nel 2006 nei locali della foresteria, che ospita alcune delle opere ritornate a Vallombrosa dopo le alienazioni napoleoniche e sabaude.
L’abbazia di Farneta, nella località omonima nel comune di Cortona (AR), fu fondata attorno al secolo VIII, in piena epoca longobarda, per opera dei monaci di San Colombano che poi adottarono la riforma di benedettina. L’edificio che ammiriamo oggi dovrebbe però risalire al IX o al X secolo, anche se la prima menzione documentata è del 1014. In ogni caso, si tratta Resta del più antico esempio di stile romanico della provincia di Arezzo.
Passata poi ai monaci olivetani, divenne un centro di potere e di ricchezza, tant’è vero che nel XIII secolo controllava gran parte della Val di Chiana inferiore; la sua decadenza iniziò nel XV secolo e si concluse nel 1799, durante l’occupazione napoleonica.
Del complesso originario rimane solo più la chiesa abbaziale ad una sola navata, dotata di tre absidi posteriori ed una laterale, secondo lo schema della croce a Tau.
Sulla parete destra del transetto, un affresco firmato dal Papacello rappresenta la Madonna col Bambino tra i santi Sebastiano e Rocco: il dipinto, che include una veduta dell’abbazia nel 1527, ci da un’idea di come fosse il complesso all’epoca.
Molto interessante è la cripta, divisa in tre celle e coperta da una volta a crociera secondo lo stile del romanico antico.
Se oggi possiamo ancora ammirare ciò che rimane dell’antica abbazia, lo dobbiamo a Don Sante Felici che, al suo arrivo a Farneta nel settembre 1937, decise che il monastero dovesse essere restaurato: durante la seconda guerra mondiale, fu ripulito e riportato allo stile romanico originale ed in seguito dotato di sacrestia e di un piccolo museo di reperti provenienti da scavi paleontologici e dalle inumazioni scoperte durante i lavori di ricerca.
Fondato nell’867 da Wiginisio, conte di Siena e capostipite della famiglia di origine salica poi chiamata Berardenga, il monastero di San Salvatore a Fontebona si trova a Badia Monastero, nel comune di Castelnuovo Berardenga (SI)
Trasformato in villa nel XIX secolo, ha però conservato una chiesa che presenta un impianto a croce latina, con navata accorciata per consentire l’accesso diretto al chiostro.
Lo scopo di dedicare qualche riga al monastero non è tanto derivato dal pregio architettonico dell’edificio, ma piuttosto dal mistero che circonda il complesso.
La leggenda vuole che, in tempi antichi, un viandante affamato bussò alla porta del monastero chiedendo cibo e riparo per la notte: essendo stato accolto e trattato come uno di loro, il vagabondo decise di prendere i voti e diventare monaco. Per qualche tempo tutto procedette nel migliore dei modi, finché l’uomo non si innamorò di una contadina del podere confinante con il monastero.
Fu un amore tragico: scoperti, gli amanti furono oggetto della punizione dei monaci: l’uomo fu buttato in cella, mentre la donna, accusata di stregoneria per aver ammaliato un confratello, venne portata a morte. Il monaco, devastato dal dolore, vendette l’anima al diavolo affinché gli fosse concesso di vendicarsi dei suoi confratelli.
L’aura maligna non aleggiava solo sul monastero, ma anche sul circondario, tant’è vero che chiunque gli si avvicinasse troppo trovava sicura morte. Dopo l’uccisione della moglie di un nobile fermatasi al monastero per chiede ospitalità per la notte, il monaco venne impiccato alla quercia davanti all’edificio.
Tuttavia, pare che ancora oggi il suo fantasma risieda nel complesso e continui a vagare alla ricerca del suo perduto amore, terrorizzando coloro che vi si avvicinano.
I tanti simbolismi di San Miniato
La simbologia non è un fatto raro negli edifici religiosi ed è la prova concreta del travagliato passaggio dal paganesimo al cristianesimo: l’abbazia di San Miniato non è immune da questo fenomeno ed infatti è pregna di simboli. L’intero complesso sembra costruito sul numero 5, legato al numero aureo mediante il pentagono ed il dodecaedro. Nella simbologia dei numeri, il 5 è il numero del sole ed il simbolo della quintessenza spirituale, al punto che Platone lo definiva il numero con cui Dio aveva creato il cosmo.
La simbologia della chiesa è maggiormente evidenziata dallo zodiaco posto sul pavimento: al centro della figura compare un’immagine del sole stilizzato e geometrico, mentre i segni delle costellazioni sono all’interno di un cerchio, a sua volta inscritto in un quadrato, ad indicare la congiunzione tra cielo e terra. Nella geometria sacra, il cerchio era considerato il cosmo ed il quadrato rappresentava la terra, mentre la loro unione simboleggiava che cielo e terra sono strettamente legati ed interdipendenti, in quanto ciò che succede in cielo ha effetto sulla terra e viceversa.
Sulla facciata della chiesa si può inoltre osservare la presenza del Vaso Sacro, quasi sicuramente un richiamo al Santo Graal che nei libri è indicato come sorretto da tre tavole, esattamente come avviene sulla facciata. Secondo i cabalisti, il vaso contiene la Parola e la Sapienza Creatrice, matrice del cosmo e chiave di tutti i misteri.
Si ricorda poi che il Graal è strettamente connesso ai Templari, per cui... libero sfogo alla fantasia!
Trasformare l’acqua in vino
Ad un tiro di schioppo da Farneta, precisamente sulla provinciale 31 che porta da Monsigliolo a Montecchio, si trova il pozzo di San Giliberto: si tratta di un manufatto in pietra, di forma circolare, risalente al VI secolo su cui è posta una targa, datata settembre 1968 che recita testualmente:
“Secondo lunga tradizione popolare, a questo pozzo si dissetò, l’anno 515, San Gilberto pellegrino, cambiando l’acqua in vino per gli ospitali coloni, dediti alla rinascita delle vigne nella fertile terra cortonese, dalla loro fatica bonificata”.
Si tratta di una targa fatta apporre da Don Sante Felici, studioso della storia locale che pubblicò, nel 1967 il libro “L’abbazia di Farneta in Val di Chiana”. L’iscrizione ricorda la leggenda del misterioso pellegrino assetato che chiese ad una donna, in prossimità del pozzo appunto, di potersi dissetare: dopo aver bevuto, l’acqua si trasformò improvvisamente in vino per di tre giorni, consentendo agli abitanti delle campagne circostanti di festeggiare e ringraziare per il prodigio.
Difficile interpretare il senso di questa leggenda: ma nelle agiografie e nella storia dei santi non è raro incontrare versioni minori dei miracoli descritti dai Vangeli, nel caso specifico quello delle nozze di Cana.
Contrariamente alla maggior parte delle leggende che parlano di minacce, di creature ostili o situazioni pericolose, questa ha un risvolto positivo ed è probabilmente legata alla natura divina dell’acqua, concetto contemplato in diverse culture europee.
DOVE SOSTARE
- Abbazia di San Michele Arcangelo
◦ Area Comunale - via Montebeni - Greve in Chianti - GPS: lat 43.59019 – long 11.31378
- Abbazia di San Miniato al Montecchio
◦ Parcheggio Comunale - viale Pierluigi Nervi - Firenze, GPS: lat 43.78013 – long 11.28366
◦ Parcheggio Gelsomino - via del Gelsomino 11 - Firenze, GPS: lat 43.75176 – long 11.24379
- Abbazia di Vallombrosa
◦ Area Sosta presso l’abbazia - via San Benedetto - Località Vallombrosa - GPS: lat 43.73294 - long 11.55645
- Abbazia di Farneta
◦ Parcheggio Comunale - viale Cesare Battisti – Cortona - GPS: lat 43.27301 – long 11.98753
- Badia a Monastero
◦ Parcheggio Comunale - via dei Fossi - San Gusmè - Castelnuovo Berardenga - GPS: lat 43.38796 – long 11.49732
◦ Area Comunale - via delle Fonti, 1 – Pianella - Castelnuovo Berardenga - GPS: lat 43.35523 – long 11.4166